Era rimasto solo lui, tenacemente attaccato a una vita che gli aveva dato tutto (ma anche tolto qualcosa) a impersonare i fasti della grande Hollywood. Quella in cui i film erano kolossal, gli attori mitici come eroi di Omero, le attrici simboli eterni di bellezza e di giovinezza. Ma il tempo alla fine si è preso la sua inevitabile rivincita. E anche Kirk Douglas ha dovuto arrendersi, dopo aver lottato per ben 103 anni alla sua maniera, con gli occhi azzurri e lo sguardo impavido di chi combatte per una giusta causa.
La fossetta nel mento, l’unica imperfezione del suo viso, secondo un’antica leggenda ebraica era il segno di un angelo che voleva tenere il suo protetto fuori da mondo. Ebbene, quell’angelo ha decisamente fallito. Issur Danielovitch, questo era il vero nome di Kirk, nel mondo ci si è ritrovato a meraviglia, e lo ha plasmato a sua immagine a somiglianza. Figlio di un straccivendolo ebreo arrivato a New York dalla Bielorussia, unico maschio in mezzo a sei sorelle («La nostra era una povertà abietta», ha ricordato in un intervista Tv, «ho sofferto la fame, quella vera»), Issur viene beneficiato da un volto bellissimo, un fisico eccezionale e una grande intelligenza, che gli permette di iscriversi all’università. Qui viene travolto dal desiderio di recitare e arriva a laurearsi all’Accademia d’arte drammatica.
Ha talento e personalità, ma sembra destinato a una carriera solo teatrale, quando l’amica Lauren Bacali (moglie di Humphrey Bogart) nel 1939 lo segnala a Hollywood, di cui diventa una colonna per i trent’anni a venire. Il torace possente, lo sguardo magnetico dietro cui si nascondono conflitti interiori solo suggeriti, mai confessati, lo rendono l’interprete ideale per personaggi al tempo stesso eroici e malinconici, combattenti coraggiosi ma destinati allo scacco, come Spartacus, il gladiatore che spinge alla rivolta i suoi colleghi e viene schiacciato dai romani, il suo personaggio più celebre.
Ma sono da ricordare anche la sua interpretazione di un pugile cinico ed egoista in II grande campione (il ruolo che Uha lanciato), il giornalista arrivista e incauto in Lasso nella manica, il Vincent Van Gogh sull’orlo della follia di Brama di vivere, l’avventuroso Ulisse nel film omonimo diretto dall’italiano Mario Camerini, il giocatore ubriacone e disincantato che si unisce allo sceriffo nella lotta contro i malviventi in Sfida all’Ok Corrai, il coraggioso ufficiale che sfida i superiori per salvare dalla condanna a morte i suoi soldati, senza riuscirci, in Orizzonti di gloria. «Gli attori», disse una volta in una sorprendente intervista, «in realtà sono dei timidi. In qualche modo nascondono il loro vero io dietro i propri personaggi. Anch’io sono così».
Bello, bravo, ma anche con un carattere terribile e autoritario, un “son of bi- tch” (dobbiamo tradurre?) come lui stesso si definiva. Kirk Douglas non era scelto dai registi, era uno che i registi li imponeva, ed ebbe l’occhio lungo nell’impor- re alla produzione di Spartacus il giovane Stanley Kubrick, che grazie a lui iniziò una carriera straordinaria. E anche grande seduttore, prima e dopo le nozze con la seconda moglie, Anne Buydens, sposata nel 1954 e che ancora gli sopravvive, pur essendo anche lei centenaria.
Era l’addetta stampa di una pellicola che si girava in Francia. Kirk, da poco divorziato dalla prima moglie Diana Dill (che gli ha dato il figlio Michael), la invitò a cena, certo di fare centro al primo colpo. «No grazie, stasera mi mangio a casa due uova sode», rispose Anne. Dimostrando ancora una volta che per le donne farsi desiderare è l’arma vincente. Kirk capitolò, e il matrimonio è durato 66 anni. Non sono mancati certo, da parte di lui, i tradimenti, mai tollerati da Anne, ma solo accettati. «Non era realistico aspettarsi da lui totale fedeltà», ha detto lei una volta, seraficamente.
Con l’inevitabile declinare della carriera, la vita di Kirk diventa sempre più ricca e attiva: finanzia un centro per senzatetto, un fondo per la pensione agli attori, parchi per bambini. Scrive libri, e poesie, molte dedicate alla moglie Anne. Tentare cose nuove lo diverte perché come disse pochi anni fa in una bella intervista a Silvia Bizio di Repubblica: «Quando reciti è come giocare a indiani e cowboy, e recitare è come tornare bambini. Ma dopo essere stato per tutta la vita altre persone, adesso ritorno me stesso». E segue la carriera del figlio Michael, senza preoccuparsi di vedere oscurata la sua fama da lui. «Ne sono orgoglioso, è il mio attore preferito, e quello che mi piace di lui è che è più intelligente di me. Ora sono per molti il padre di… E mi va bene così». Un solo grande dolore a turbare la sua felicità: la morte del figlio Eric, avuto da Anne, per overdose, all’età di 46 anni. «E stata una tragedia», disse, «ma la vita è così. A un certo punto i figli non si possono più proteggere».
A chi gli chiedeva il segreto della sua longevità, Kirk rispondeva: «Vivi con qualcuno che ami e ammiri. Interessati al prossimo, così non ti annoi e non annoi gli altri. Cerca di fare qualcosa di speciale e significativo ogni giorno. Accetta i cambiamenti e i tuoi limiti, e sii grato a chi rende la tua vita più felice». Semplice a dirsi, ma quanto difficile a farsi.
Cosa ci lascia in eredità Kirk Douglas? Tanti film meravigliosi, certo. E poi, come sempre, l’arte ci indica una strada. I personaggi eroici e sconfitti di Kirk, con la loro voglia di riscatto sempre oscurata dell’angoscia per l’imminente sconfitta, ci regalano un bel modello ideale. Sarebbe bello avere almeno un briciolo di quell’eroismo, di quella voglia di combattere per la giustizia che Kirk ha impersonato nei suoi film. E che in fondo lui ha messo in pratica nella vita vera.
Perché se non fosse stato un po’ eroe, diffìcilmente il figlio dello straccivendolo, sarebbe diventato una leggenda di Hollywood. Per usare le sue parole: «Kirk Douglas è il nome con cui mi presento in società, la mia facciata. Ma è Issur Danielovitch quello che ha davvero talento. E Issur che è riuscito a emergere dai bassifondi, anche perché più giù non poteva scendere. L’unica sua possibilità era risalire».