Clint Eastwood,negli ultimi vent’anni tanti film di generi diversi e tutti capolavori

Questo articolo in breve

Quando si parla di personaggi come Clint Eastwood, il rischio è sempre quello di dire troppo, o troppo poco.

Troppo, perché se ci addentrassimo nella sua sterminata biografìa, da quando, ventenne giovane, bello e muscoloso, era un ragazzo-copertina nelle riviste Usa, per poi andare alla straordinaria esperienza con Sergio Leone, nei suoi film allora chiamati sprezzantemente “spaghetti western” e ora additati come capolavori, fino al successo delle pellicole dell’ispettore Callaghan per concludere con la sua carriera come regista, si dovrebbe scrivere un volume.

Troppo poco perché, di fronte a 90 anni (che festeggerà il 31 maggio) di una vita così intensa e creativa, così densa di avventure e successi, davvero qualsiasi racconto non sembra all ’ altezza del personaggio.

Ma noi ci proviamo, e partiamo proprio dalla fine, dai suoi 90 anni, che lo sorprendono ancora in piena attività: il suo ultimo film Richard Jewell, uscito in Italia nel gennaio scorso e dedicato alla guardia giurata che sventò un attentato alle Olimpiadi Atlanta, per poi essere ingiustamente accusato di esserne l’autore, è stato, come al solito, un successo, di critica e di pubblico.

Ma che si possa arrivare a 90 anni ancora in forma e in piena attività, non è una più una novità: succederà, si spera a tanti, sempre più spesso, se la fortuna e la salute aiutano. No, quello che di Clint Eastwood ci piace mettere in rilievo è qualcosa di diverso, e di davvero raro: la capacità di cambiare, di innovare, di sperimentare fino a tardissima età. Che è qualcosa di diverso dall’essere attivi, in forma e creativi.

Si può arrivare a 90 anni in gran spolvero, però ripetendosi sempre, attaccati alle proprie sicurezze, come in fondo è naturale ed è umano. Oppure, come Clint, si può “ringiovanire” continuamente, affrontando ogni volta qualcosa di nuovo, e con l’incredibile capacità di venirne sempre a capo con successo. Questo non è semplice talento, è autentico genio.

Ha quasi del magico come Eastwood, di famiglia modesta, il papà un semplice operaio di San Francisco, abbia saputo assimilare la lezione dei suoi grandi maestri, assorbirla e poi rilasciarne il succo poco a poco, proprio nell’età in cui per tanti inizia la vecchiaia, e invece per lui è cominciata una giovinezza di cui non si vede la fine. Quando faceva l’attore aveva bellezza e carisma, e non a caso Sergio Leone lo scelse nella sua trilogia Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più, Il buono, il brutto e il cattivo. Ma tanti ironizzavano sul suo autentico talento, su quel volto roccioso che, come recitava una battuta che ha fatto fortuna, «aveva solo due espressioni, con la pistola e senza» . Invece il quarantenne Clint imparava silenziosamente il mestiere di regista, sottotraccia, senza parere.

E quando la sua carriera di attore si andava esaurendo, ha messo tutto a frutto. All’inizio però, magistralmente, solo con il genere che meglio conosceva, il western: prima con II texano dagli occhi di ghiaccio, del 1976 che però è sembrato a lungo uno sparo nel buio, un’opera destinata rimanere unica. Poi il grande ritorno, la rivelazione, nel 1992, con Gli spietati, anche questo un western, girato talmente bene, e talmente efficace, da far gridare al capolavoro.

Era il 1992, e Eastwood aveva già 62 anni. Si pensava fosse il sigillo finale a una bella carriera, e invece era solo all’inizio, perché il talento, anzi il genio, ha iniziato a baciarlo in modo inatteso. La creatività che celava dietro a quegli occhi di ghiaccio, libera forse dai vincoli dell’abitudine, o anche della necessità, è esplosa. Da allora Eastwood ha girato pratica- mente un film all’anno, tutti bellissimi, alcuni capolavori.

Ha saputo raccontare storie dolcemente romantiche come in I ponti di Madison County, il dramma della pedofilia in Mystic River, la dolorosa scelta dell’eutanasia in Million Bollar Baby, l’eroismo della guerra in Flags of our Father, il razzismo e le difficoltà dell’incontro tra diverse culture in Gran Torino, la parabola umana e politica di Nelson Mandela in Invictus, la storia segreta dei servizi segreti Usa in J.Edgar, l’angoscia nascosta dei soldati costretti a uccidere per mestiere in American Sniper, il dramma degli anziani poveri in Il corriere – The Mule.

Come si vede, tutti temi diversi, tutti film che implicano una continua sperimentazione, nessuno simile all’altro. Tutti uniti però dal suo stile inimitabile: asciutto, realistico, granitico, come l’espressione del suo volto nei western di Leone. Eastwood è il regista dell’essenziale, che detesta gli effetti speciali, le parole di troppo, che va subito cuore dei fatti e dei suoi personaggi. E i suoi personaggi prediletti sono gli eroi solitari, che vanno incontro al loro dovere e al loro destino senza pomposità, senza nessuna particolare fierezza, solo perché è giusto. E che sono disposti a perseguire la giustizia anche contro le pressioni del mondo esterno, e i loro stessi pregiudizi, come l’operaio razzista di Gran Torino che dà la vita per difendere un ragazzo asiatico dai bulli che lo tormentano.

Nessun regista ha mai dimostrato tanta capacità di cambiare, di reinventarsi, di rinnovarsi dopo i 70 anni. Come se qualcosa di sepolto, di sempre inespresso, fosse improvvisamente esploso nell’anima di questo rude pistolero. Come se un oceano di sentimenti avesse rotto gli argini all’improvviso e si fosse trasformato nel diamante del genio puro.

Eastwood sa essere più forte anche delle sue convinzioni più radicate: conservatore dichiarato, portabandiera da sempre dei valori tipici americani, la lealtà, l’individualismo, il patriottismo, ha raccontato però spesso storie di povertà, di razzismo, ha scavato a fondo nei drammi della guerra, anche di quelle che riteneva giuste, nei misteri del suo Paese, che continua a ritenere il migliore del mondo. Non si è mai rinchiuso nei suoi pregiudizi, li ha sempre messi in discussione, mostrando un’elasticità mentale, anche qui, davvero portentosa in un novantenne,
Che dire? Per noi, l’avrete capito, Clint è un mito. Non perché vorremmo invecchiare come lui, ma perché ci piacerebbe restare giovani come lui. Ma è un destino riservato a pochi.