Alzheimer diversi studi aprono una nuova strada per combattere il morbo

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E se fosse – anche – colpa di un virus? Di un virus diffusissimo come llierpes simplex? Da decenni si cerca di capire perché nel cervello di alcune persone, a un certo punto, iniziano a depositarsi proteine alterate (le beta amiloidi) fino a quando i danni sono tali da compromettere le funzioni cognitive, e poi, a cascata, molto altro.

Si sono cercate cause endogene, relative al patrimonio genetico, che certamente gioca un ruolo, ma anche allo stile di vita, ad altre malattie come quelle vascolari e metaboliche, alla composizione del microbiota intestinale e ai fattori più disparati, senza mali trovare la pistola fumante e, di conseguenza, senza mai riuscire a impostare né strategie preventive né percorsi terapeutici realmente efficaci.

Un fallimento costoso e frustrante, che negli ultimi mesi ha portato non pochi colossi di big pharma a gettare la spugna. Le aziende si sono arrese e hanno semplicemente, con pochissime eccezioni, alzato le mani per passare ad altri, più redditizi e meno complicati business.

Poi però, a cavallo del nuovo secolo, tra le altre ha iniziato a farsi strada un’ipotesi più eterodossa: quella di un ruolo delle infezioni virali nella demenza di Alzheimer, e forse anche in altre forme di neurodegenerazione.

Il presupposto è che le demenze, e soprattutto quella di Alzheimer, sono sempre caratterizzate da un’infiammazione cronica del cervello, più o meno intensa. Cioè, da una reazione che, per giunta, è tipica della risposta alle infezioni.

E, d’altro canto, in molti cervelli di malati analizzati post mortem si sono trovate tracce evidenti di infezioni virali, anche se spesso si trattava di virus diffusi tra la popolazione, non di rado proprio di esponenti della numerosa famiglia degli herpes, ed è stato quindi sempre molto difficile stabilire un nesso di causa-effetto.

Ma i dati che suggerivano un ruolo delle infezioni nella neurodegenerazione, ottenuti in studi sia sperimentali che clinici, hanno continuato ad accumularsi. Negli scorsi mesi la rivista Jama ha dedicato un lungo articolo a quanto si è capito finora; ne abbiamo parlato con Anna Teresa Palamara, virologa dell’Università Sapienza di Roma e autrice di diversi studi sul tema realizzati in collaborazione con Giovanna De Chiara del Cnr e con Claudio Grassi, dell’Università Cattolica di Roma.

«I virus hanno essenzialmente due tipi di comportamento: alcuni provocano un’infezione acuta, che può dare sintomi anche gravi, ma che causa, in tempi brevi, la morte delle cellule ospiti e, con essa, degli stessi virus, che non possono più moltiplicarsi.

Ma altri, dopo una prima fase acuta, vanno a cercare organi e tessuti in cui restare nascosti anche per tutta la vita dell’ospite, riattivandosi in risposta ad alcuni stimoli, o in circostanze specifiche. È il caso del ben noto herpes simplex L labiale, che si ripresenta a intervalli di tempo estremamente variabili e in seguito a eventi quali lo stress, l’esposizione al sole o al freddo, il ciclo mestruale. Ciò che però è molto interessante.

Ai fini del nesso con l’Alzheimer, è la sua capacità di raggiungere alcune zone specifiche del cervello».

L’herpes simplex, infatti, spiega la virologa, dopo aver infettato le cellule epiteliali delle labbra, entra nelle fibre nervose sensoriali e raggiunge un raggruppamento di cellule nervose chiamato ganglio di Gasser, posto grosso modo dietro allo zigomo.

Qui il virus può rimanere silente a lungo, dando luogo, di tanto in tanto, alle vescicole della mucosa orale. Ma il problema è che altre fibre, dallo stesso ganglio, vanno al cervello, e lì trasportano anche il virus, provocando infezioni lievi e ripetute nel tempo. Del resto, l’herpes può dare, per fortuna raramente, infezioni cerebrali chiamate encefaliti.

Da ciò nasce l’ipotesi oggetto di studio da parte del gruppo di virologi e neuroscienziati romani, e condivisa con diversi altri gruppi a livello intemazionale: «Virus come l’herpes simplex – spiega Paiamara – che nell’arco di anni e anni si riattivano più volte, potrebbero agire da innesco per tutta la cascata di eventi che porta all’accumulo di proteine e fattori che determinano la neurodegenerazione» Se questo scenario trovasse conferme, si potrebbe finalmente attuare una strategia preventiva, con farmaci e, auspicabilmente, con un vaccino da somministrare fin dalla più tenera età, proprio per prevenire l’infezione.

Per ora il gruppo di Paiamara ha trovato conferme sia nelle cellule sia nei modelli animali: se si inducono cicli ripetuti di infezione da herpes simplex 1, il virus arriva al cervello e, soprattutto, si vedono tutti i segni biologici e le alterazioni cognitive proprie della demenza.

E si vedono in animali che, dopo una prima infezione da giovani, sono diventati anziani. Il che lascia intuire che la demenza potrebbe avere inizio quando si rompe l’equilibrio e viene meno la capacità di recupero del cervello a causa dell’età. Ci sono poi alcune conferme preliminari su tessuti umani, anche se in quel caso la situazione è più complessa.

Ma in maggio un gruppo della Columbia University di New York ha confermato, su organoidi cerebrali (cioè colture cellulari tridimensionali molto più vicine alla realtà rispetto a quelle tradizionali), in un lavoro pubblicato su Science Advances, che è esattamente così che si comporta un simil-cervello.