Mentre le condizioni mediche dei cinque militari feriti nell’agguato nei pressi di Kirkuk si stanno stabilizzando, si moltiplicano le domande sull’attentato

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Li hanno chiamati crociati, “nemici dell’Islam”. È successo di nuovo, a due giorni dal sedicesimo anniversario dell’attentato di Nassiriya, il nostro Ground Zero: un agguato ai nostri soldati, ancora in Iraq, nei pressi di Kirkuk. E in un attimo, domenica 10 novembre, siamo ripiombati nello stesso clima plumbeo, di lacrime, sangue e domande senza risposta, che mai avemmo voluto rivivere.

Di nuovo a trepidare per le sorti di cinque militari italiani feriti tra le montagne del Kurdistan iracheno, in un attentato ancora tutto da chiarire, poi rivendicato dall’Isis. Marco, Paolo, Andrea, Emanuele, Michele (citiamo solo i nomi di battesimo perché l’anonimato è fondamentale per le loro missioni) sono uomini dei nostri reparti migliori, quelli del reggimento Col Moschin (incursori dell’Esercito) e del reggimento Comsubin (specialisti della Marina).

Le loro condizioni mediche, nel momento in cui scriviamo, fanno ben sperare: tre di loro sono gravi ma nessuno è in pericolo di vita. Subito soccorsi con elicotteri statunitensi poco dopo l’attentato – avvenuto intorno alle 11 – e immediatamente trasportati nell’ospedale americano di Baghdad, hanno ricevuto tutte le cure del caso da un team chirurgico di prim’ordine. A causa delle gravi ferite, due di loro sono stati sottoposti ad amputazioni. Un terzo ha riportato diversi traumi interni e la rottura di alcune costole. Un quarto, appartenente alla Marina ha subito diverse fratture, mentre un quinto ha traumi importanti ma meno preoccupanti.

Nell’attesa di conoscere tempi e modalità del loro rientro da Baghdad, quando le condizioni mediche si saranno stabilizzate, le domande nel frattempo si moltiplicano. Prima di tutto: cosa ci facevano lì quei ragazzi? «Secondo quanto si può sapere, il team, appartenende alla Task Force 44, stava svolgendo attività di addestramento (il cosiddetto mentoring and training) in supporto alle forze irachene e regolari curde impegnate a ripulire il Kurdistan dai terroristi dello Stato islamico», ci spiega Gabriele Iacovino, direttore del Ce.S.I. (Centro Studi Internazionali). «Come sappiamo frange di jihadisti superstiti del cosiddetto Califfato hanno rialzato la testa dopo l’offensiva turca sul Rojava e la conseguente liberazione di centinaia di terroristi imprigionati dai curdi, alleati dell’Occidente nella lotta all’Isis. In particolare l’area intorno a Kirkuk, indicata come zona dell’attentato, è tra quelle dove è segnalata una grande presenza di fondamentalisti».

In quella zona era in corso una vasta azione antiterrorismo da parte dei Peshmerga curdi. In quella maledetta domenica i nostri soldati viaggiavano dietro a una squadra del Counter terrorism Service curdo che avevano formato e che stavano seguendo nelle prime operazioni sul campo. La missione sembrava essersi chiusa al meglio, tanto che i media curdi avevano già comunicato la scoperta di armamenti e rifugi appartenenti a cellule Isis, oltre all’eliminazione di alcuni terroristi. A operazione conclusa, i cinque specialisti italiani si erano sganciati, ed ecco l’esplosione. Casuale o programmata? «Nulla può essere escluso allo stato attuale», considera ancora Gabriele Iacovino, che è stato anche docente al master in Sicurezza, Intelligence e Aree di Crisi del Ce.S.I. «Non è ancora dato sapere se i nostri militari siano incappati in un ordigno abbandonato nella zona. Oppure se si sia trattato di una trappola orchestrata contro questi reparti speciali da frange resistenti dell’isis, come sembrerebbe più plausibile. E probabilmente non lo si potrà mai sapere con certezza: certe missioni devono ovviamente restare coperte da segreto».

Alcune considerazioni, secondo Iacovino, si possono però già fare: «L’attacco contro i nostri soldati ci fa comprendere che la lotta all’Isis non è finita. Ma ci fa anche riflettere sul fatto che le nostre missioni all’estero, sconosciute o poco note alla maggior parte dell’opinione pubblica, sono tuttora fondamentali per la nostra sicurezza e per quella del MedioOriente, oltre che per l’immagine del nostro Paese».