Morire soli, senza l’affetto dei propri cari, soffrire gli ultimi giorni della propria esistenza in una corsia di ospedale circondati soltanto da medici e infermieri.
Essere messi in una cassa e tumulati e cremati, senza funerale, senza fiori, senza che nessuno possa raccontare un aneddoto, versare una lacrima vicino alla bara, riguardare un ultima volta il corpo esanime di un proprio caro. Andarsene anonimamente, tra centinaia di altre casse di legno: se c’è una cosa più brutta della morte, è morire in questo modo.
Il Coronavirus è anche questo, soprattutto nella zone più colpita d’Italia: Bergamo: è qui che un impresario di agenzie funebri di Madone, ha raccontato all’agenzia ANSA il drammatico periodo che sta vivendo nelle ultime settimane.
“Sono tre giorni che non dormo, lunedì sera ho avuto una crisi di nervi, abbiamo seppellito 40 persone, solo noi», dice Nicolas Facheris, 28 anni, troppo pochi per tutto il dolore che gli sta piovendo addosso, anche se fa questo lavoro da 10 anni. È lui che sabato ha scattato le foto delle bare allineate nella cappella al cimitero di Bergamo e nel tendone dell’ospedale Gavazini.
“Siamo sommersi dal lavoro – racconta con il tono sbrigativo di chi non può prendersi una pausa neanche per raccontare la situazione drammatica in cui sta lavorando -. È una cosa che non si riesce a spiegare, non riusciamo a fermarci”.
Fa una pausa, poi aggiunge: “È pesante, è stancante, non vediamo la fine e viviamo con il terrore che il telefono continui a suonare. Molti sono i servizi a cui rinunciamo per la mancanza di tempo, di casse o di accessori”. In questi casi le agenzie funebri si passano i servizi fra di loro per riuscire a rispondere a tutte le richieste.