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Magari tra due-tre stagioni, come in molti hanno ipotizzato nel corso degli anni, il fondo Elliott farà il fondo Elliott e rivenderà il Milan, ma finora la società statunitense, creata nel 1977 a New York da Paul Singer, si è dimostrata un’eccellente proprietà per il club rossonero. Dopo la fallimentare esperienza cinese, Elliott ha riportato il Milan a essere qualcosa di molto simile al Milan di un tempo. La differenza – con la gestione Berlusconi, per esempio – sta tutta nei risultati, ma dall’estate 2018 a oggi la progressione è stata lampante e nel 2020 il Milan è stata la squadra migliore d’Italia. Peccato che i due mezzi campionati a cavallo fra l’annata 2019-20 e quella attuale, non portino in bacheca alcun titolo, ma in casa rossonera si guarda al domani con il giusto ottimismo.
Elliott, come detto, si è dimostrato una proprietà seria e anche capace di cambiare i programmi in corso d’opera capendo al meglio le esigenze della società. La dimostrazione principale sta nella vicenda Pioli-Rangnick (ne parliamo a parte nell’articolo in basso), con la famiglia Singer, insieme al management londinese di Elliott e l’ad Ivan Gazidis, prima intenti a pensare al futuro con il tedesco Rangnick e poi bravi a confermare Pioli per l’ottimo lavoro svolto. Ma Elliott, con la sua affidabilità ha saputo convincere Paolo Maldini a tornare in rossonero, una missione che in passato non erano riusciti a portare a termine né Barbara Berlusconi, né Marco Fassone. E a riportare dietro alla scrivania vecchie glorie come Leonardo e Boban che hanno poi lasciato rumorosamente perché non in linea con le idee della proprietà. Idee che, però, alla lunga hanno riportato il Milan in vetta alla classifica di Serie A da dove mancava quasi da dieci anni. Ma Elliott non ci ha messo solo il progetto e la capacità di ascoltare le proposte altrui, ci ha messo anche i soldi, tanti. In due anni e mezzo, il fondo americano ha investito circa 650 milioni e non è finita qui. Ci saranno gli investimenti per il mercato di gennaio, quelli per l’estate e soprattutto quelli per la costruzione del nuovo stadio in sinergia con l’Inter. Tanti soldi, come ha ribadito lo stesso fondo qualche settimana fa quando in un nota stampa venivano respinte le ennesime accuse di poca trasparenza sui veri titolari delle quote societarie. Oltre a ribadire di detenere «il 96% del club», Elliott confermava l’impegno «a riportare il Milan ai vertici del calcio europeo», allontanando così anche le voci su possibili cessioni come quelle che periodicamente tornano sul magnate francese della moda, Bernard Arnault. Infine, la questione stadio: «Elliott si è inoltre impegnata a partecipare a un investimento privato di 1.2 miliardi di euro per la costruzione di un nuovo impianto all’avanguardia per la città di Milano e di un innovativo distretto multifunzionale, che insieme contribuiranno alla continua trasformazione del Milan».
E poi ovviamente c’è il campo. Gordon Singer, figlio di Paul e, in sostanza, numero uno del club rossonero, ha dettato una linea: investimenti sì, ma su giovani potenziali campioni. Un’indicazione che, per esempio, ha portato all’addio di Leonardo (che ha pagato anche le scommesse, poi perse, di Paquetà e Piatek) e a un primo scontro con Boban (il secondo, su Rangnick, ha causato la fragorosa rottura di marzo 2020). Maldini, prima assistente del dirigente brasiliano, poi prima guida con Boban e quindi da solo, ma con il forte appoggio e sostegno del “pannello di controllo” del club (fra i quali il ds Massara e diversi dirigenti tra Milano e Londra), ha saputo coniugare la volontà del club alle esigenze della squadra, mettendoci spesso la faccia e convincendo diversi giocatori grazie al suo carisma, alla sua storia nel mondo del calcio. E così sono arrivati tanti giovani di prospettiva (alcuni indicati dal capo scout Moncada), vedi Theo Hernandez, Bennacer, Leao, Saelemakers, Tonali e Hauge (più Brahim Diaz e Dalot, ma in prestito secco), ma anche elementi di esperienza decisivi per far crescere questi ragazzi e per far fare il salto di qualità a “vecchi” rossoneri che faticavano a emergere, vedi Calabria, Kessie e Calhanoglu. Prima è arrivato Rebic, vice campione del mondo 2018 con la Croazia, quindi nel gennaio 2020 Kjaer e soprattutto Ibrahimovic, l’uomo simbolo della rinascita rossonera. Con lui tutti i giocatori del Milan si sono sentiti da Milan e hanno iniziato a rendere da calciatori del Milan. Lo svedese – quasi pronto al rientro dopo un mese di stop (ieri si è allenato a parte e su Instagram ha pubblicato un video dove segna di testa, scrivendo “tick tock tick tock”), ci ha messo gol e soprattutto leadership, mentalità vincente. Il risultato è sotto gli occhi di tutti.
Tutto è cambiato il 21 luglio, anche se nella testa di Elliott e Ivan Gazidis, la pulce si era insinuata già da un mese abbondante, se non di più. Quella sera il Milan vinceva a Reggio Emilia contro il Sassuolo e alle 23.45 il club rossonero annunciava sul proprio sito quello che qualche ora prima aveva comunicato direttamente a Stefano Pioli, ovvero che il tecnico emiliano sarebbe rimasto sulla panchina del Milan oltre il primo agosto, prolungando il suo accordo fino al 30 giugno 2022. Quella sera venivano spazzati via in un amen tutti i rumors, i contatti, gli incontri dal vivo e in video-conferenza su Ralf Rangnick, il manager tedesco che gli stessi Elliott e Gazidis avevano scelto a novembre del 2019, quando il Milan, da poco affidato a Pioli, non riusciva a rialzarsi, crollando a fine dicembre nell’ormai famoso 5-0 a Bergamo.
Rangnick era l’uomo designato a costruire un nuovo Milan sul modello del Lipsia: via Pioli e con lui probabilmente addio anche a Maldini che difficilmente avrebbe accettato un ridimensionamento e un ruolo di facciata. La crescita estiva della squadra, la gestione del periodo di lockdown di Pioli avevano però fatto capire alla proprietà che qualcosa di nuovo stava già nascendo in casa. Stravolgere tutto rappresentava un’affascinante scommessa, ma anche un rischio, l’ennesimo di un Milan che negli ultimi cinque anni aveva cambiato tre proprietà e diversi management. Quella sera del 21 luglio ha vinto la prudenza, ma anche la saggezza e la stabilità, pure economica: Pioli aveva dimostrato di meritarsi il Milan e con lui il club aveva optato per la continuità dopo tante, troppe rivoluzioni. Il tempo ha poi dato ragiona a tutti, a Maldini e Massara in primis, i grandi sponsor di Pioli, ma anche alla proprietà: in quel momento era giusto, ma anche facile, lasciare tutto inalterato. Quanto fatto da ottobre a oggi, però, ha dimostrato nei fatti che quanto “votato” il 21 luglio era – e rimane – la scelta migliore.