T1 mondo dello sport e della televisione piange Gian Piero Galeazzi, morto ieri a I Roma all’età di 75 anni dopo una lunga malattia. Laureato in Economia e cam-X pione italiano di canottaggio, entrò in Rai nei primi Anni 70 e divenne presto voce e volto di canottaggio, tennis e calcio. “Bisteccone” – così lo soprannominò il suo futuro capo Gilberto Evangelisti – ha seguito sei edizioni dei Giochi Olimpici, rendendo memorabili le vittorie dei fratelli Abbagnale e di Bonomi-Rossi con telecronache che hanno cambiato il giornalismo. Per la Domenica Sportiva è stato inviato nella Serie A degli Anni 80, inventando di fatto il mestiere di bordocampista (recitò se stesso nel film-cult “L’allenatore nel pallone” con Lino Banfi) grazie alle sue interviste “a caldo” con allenatori, presidenti e calciatori (su tutti Maradona). Dal 1992 al 1999 ha condotto “90° minuto”, affiancato Pippo Baudo nel Festival di Sanremo 1996efattoa lungo “Domenica in” con Mara Venier, restando in Rai per 42 anni.
Siamo fatti di memoria, questa è la verità. Pensiamo di lasciarci il passato alle spalle, immersi nel presente e tesi al futuro come siamo; ci illudiamo che quello che è stato è stato, e che i ricordi siano istantanee in una vecchia scatola di biscotti, da andare a pescare in caso di nostalgia o di necessità.
E invece siamo fatti di memoria, e i pezzi del passato sono sempre presenti e forti, con colori e sapori, perché sono i mattoni che formano la nostra identità. E spesso i contorni sono più saporiti e profumati delle pietanze che contribuivano ad abbellire, e li ricordiamo con maggiore potenza, ed emergono sulla superfìcie della coscienza con una nitidezza che li rende immutabili nel tempo, per niente sbiaditi o ammuffiti.
Ecco per quale motivo il valore di Gian Piero Galeazzi, per noi che Aeravamo, per noi che in quel tempo avevamo coscienza della grandezza degli eventi che ci riferiva, è forse ancora maggiore di chi c’era davanti ai suoi occhi ed era oggetto del suo arrochito racconto.
Ricordiamo Galeazzi, più ancora delle prue eroiche degli Abbagnale che fendevano le acque olimpiche. Ricordiamo Galeazzi, più ancora della ressa attorno ai campioni circondati da microfoni perché non parlavano per contratto ma casualmente, colti nel pieno dell’adrenalina di bordocampo, senza sfondi sponsorizzati alle spalle, senza essersi pettinati
nel frattempo. Ricordiamo Galeazzi, sommerso da spumante e gavettoni come fosse un compagno di squadra, che coglieva lacrime di gioia e scomposti cori a petto nudo nella sacralità di spogliatoi che oggi sembrano reparti di cliniche svizzere.
Idealmente raccolti attorno al suo letto d i morte, addolorati come fosse un cugino o uno zio di cui da tempo non sapevamo più niente, col vago colpevole rimpianto che sempre si prova quando si è forse trascurato un affetto, riflettiamo sul tempo che era e sul tempo di adesso; e un po’ci sentiamo anche in colpa verso i nostri figli, per quanto era bello allora e per quanto sia asettico e triste il racconto dell’epica sportiva, com’è diventato oggi.
Se dovessimo spiegare la radice della tristezza che ci prende, alla notizia della scomparsa di questo gigantesco cronista delle imprese, se dovessimo far capire chi era e com’era, avremmo difficoltà. Perché ai ragazzi (non moltissimi) appassionati di sport dovremmo probabilmente costruire una creatura alla Mary Shelley, un po’ qui e un po’ lì, perché Bistecconeera enorme, non solo fisicamente ma per la personalità sensibilità. E dovremmo spiegare ai ragazzi che non è la morte che santifica, non è il fascino della gioventù perduta né una senile tendenza a vedere un necessario degrado dei tempi che ce lo fa dire.
Lui era un pezzo di bordocampista con l’attitudine a leggere anche le gocce di sudore; ma anche un pezzo di telecronista, con una visione d’insieme profonda e competente; ma anche un pezzo di esperto di costume, con domande secche e intelligenti che consentivano di capire l’umanità dei campioni senza uno sgabello e un riflettore; ma anche un acuto commentatore, in grado di analizzare compiutamente un evento a distanza di pochi minuti dalla conclusione; ma anche un opinionista, preparato a largo raggio e capace di entrare nel merito dei fatti pesandone l’effettiva portata. Era un po’ di tutto, Galeazzi. E noi, che lo ascoltavamo, eravamo certi che non sarebbe stato mai banale.
In nessun caso. I ricordi di cui è portatore nella nostra memoria hanno il pregio di essere comuni, e non è cosa da poco. Non erano quelli i tempi in cui un evento arrivava multiforme e da frammentate angolazioni. Oggi c’è chi ha visto sul satellite e chi ha sentito in radio, chi ha colto sul web e chi ha rivisto in streaming, che preferisce la telecronaca in lingua e chi trova sul blog o il social di riferimento. Allora una voce c’era, roca e sudata, ed era quella di Galeazzi, entusiasta e gioioso come avesse giocato o vogato o pedalato lui stesso, in totale condivisione col campione e con chi assisteva, un ponte di sangue e fatica che ti portava sul campo anche senza alta definizione
Una condivisione che lo portò indimenticabilmente a conferire il microfono a un Diego neo scudettato e felice, per intervistare i compagni, insieme a lui e insieme a noi.
Non sarà possibile, per noi i che c’eravamo, fare a meno di questo ricordo. Perché siamo i fatti di memoria, e un pezzo * importante della memoria di questa generazione avrà per f sempre la voce, il faccione, il t sorriso e il sudore di Gian Piero Galeazzi.