Gabriel Garko: “Spero che nessuno mi chieda piu con chi vado al letto”

Questo articolo in breve

Ho girato il mondo. Ho visto posti meravigliosi e ho fatto incontri indescrivibili, ma il più bel viaggio l’ho fatto ripercorrendo i miei primi 47 anni». A parlare così, alla vigilia dell’uscita del suo primo memoir, è un inedito Gabriel Garko che, apre le porte della sua casa a pochi chilometri da Roma. «È il mio rifugio da più di 15 anni. Le coordinate della mia felicità, oggi, sono tutte qui.»

Domanda. È un museo la sua casa, Garko.

Risposta. «Non se l’aspettava, vero? E stata interamente arredata da me e dentro ci sono tutte le mie passioni: libri, quadri, sculture e opere d’arte. C’è la sala cinema e anche quella musicale con tanto di pianoforte e violini. È una casa che mi somiglia molto ed è proprio qui che ho trovato il coraggio e la forza di scrivere Andata e ritorno».

D. Da dove nasce l’idea di raccontarsi in un libro?

R. «Avevo voglia di condividere con chi mi segue le tappe fondamentali della mia esistenza. E volevo farlo senza filtri».

D. C’è chi dice che scrivere di sé sia un po’ come andare dall’analista.

R. «Ed è stato così anche per me. Ci sono capitoli che, oggi, non riesco nemmeno a rileggere».

D. Quali?

R. «Quello dedicato a Bacco, il mio cane scomparso qualche anno fa, e quello relativo all’incidente sanremese (nel 2016, quando Garko era co-conduttore del Festival, andò a fuoco la villa in cui alloggiava: l’attore riportò lievi ferite, ma una signora anziana morì sotto le macerie, ndr). Due dolori diversi che, nonostante l’aiuto dell’analisi, non ho ancora metabolizzato. Vede: faccio questo lavoro da quasi 30 anni. Ho avuto un percorso bello, bellissimo, ma non sempre facile: sono convinto che questo libro, tra alti e bassi, potrà essere d’aiuto a molte persone».

D. Tra le righe, il suo è un invito a essere tutti più liberi.

R. «Ed è quello che auguro a chiunque. Per molto tempo ho dipinto la mia vita con colori che non ho mai gradito. E la violenza più grande è stata quella di averlo fatto consapevolmente. Il mio era diventato un vero e proprio lavoro. Oggi non lo voglio più fare».

D. Da lei ci si aspetta sempre un passo falso. Ne parla anche nell ’ autobiografia.

R. «Sì, è vero, ma se da una parte un certo tipo di attenzione mi lusinga, dall’altra mi lascia interdetto. Sarà un’utopia, ma sogno un mondo dove non ci sia più bisogno di raccontare quello che succede nella camera da letto tra due persone. Dobbiamo superare le barriere, le etichette, i cliché e tutte queste maledette definizioni, lasciando a tutti la libertà di esprimersi come e quando vorranno. Non riesco più a tollerare chi punta il dito, chi giudica, chi vuole dare un nome a tutto e a tutti, e non voglio più sentire parlare di normalità».

D. «Normalità, che brutta parola». Una frase cara al regista Ferzan Ozpetek con il quale lavorò anche lei nel film Le fate ignoranti.

R. «Vestivo i panni di Ernesto, un ragazzo gay malato terminale di Aids. Accettai, oltre che per il piacere di lavorare con Ferzan, anche per una forma di lotta contro i pregiudizi dettati dal bigottismo. Era il 2001 e a volte ho come l’impressione che non sia cambiato nulla».

D. I più bigotti da lei vorrebbero una risposta chiara.

R. «Ho faticato così tanto per riprendere in mano la mia vita che ora, anziché andare avanti, per compiacere i benpensanti dovrei tornare indietro? No, grazie».

D. Nel libro racconta quella volta in cui andò, da solo, a “Le Queen”, un locale gay friendly di Parigi.

R. «Una serata divertente a “Le Queen”, una delle discoteche più cool della capitale francese. Se uno deve farsi delle paranoie a entrare in un locale per banalissime deduzioni altrui, c’è un problema. E quel problema non è di certo il mio».

D. Quando aveva 17 anni, ad Asti, un uomo sposato, con figli e molto più grande tentò di abusare di lei.

R. «Da quella sera iniziai a fumare. Provai schifo, ma non ne parlai con nessuno, tantomeno con i miei».

D. Perché ha deciso di raccontarlo solo ora?

R. «Perché con questo libro mi sono aperto più di quanto mi sarei aspettato e quell’episodio, che in verità credevo di aver rimosso, è tornato prepotente a farmi visita. Marco era un uomo “normale” agli occhi della società. Eppure, come vede, anche nelle famiglie più canoniche può succedere di tutto. In passato non l’avrei mai dichiarato perché avrebbe significato voler far parlare a tutti i costi di me e io, mi creda, non ho mai cavalcato le notizie per farmi pubblicità».

D. Scelta insolita per chi fa il suo mestiere.

R. «Ho sempre cercato di far parlare il mio lavoro, poi che non sempre ci sia riuscito è un’altra storia. Nel 2014 tentarono di sabotare la mia macchina. Forse volevano farmi fuori e io ne ho parlato soltanto ora».

D. Che cosa spinge qualcuno a farle del male?

R. «Faccio fatica a spiegarmelo anch’io. Nonostante le denunce fatte, non ho mai scoperto chi fosse il mandante. Non sono nuovo a episodi di questo genere. Una volta, fuori dal cancello di casa, mi scrissero: “Garko drogato”».

D. Chissà cosa avrà pensato l’artefice della scritta dopo le sue affermazioni, dalla D’Urso, in merito a qualche canna fatta.

R. «Da Barbara ho raccontato un episodio di molti anni fa. Ero a Londra, a casa di amici. Mi feci qualche canna assieme agli altri. Da lì a poco collassai ed entrai in una sorta di paranoia. Temevo mi buttassero nel Tamigi, (ride, ndr). Battute a parte, sono sempre stato molto distante dalle droghe».

D. Che rapporto ha oggi con la popolarità?

R. «La amo e la detesto allo stesso tempo. L’unica incombenza è non poter mai staccare la spina».

D. Che idea hanno gli altri su di lei?

R. «Quando si è famosi tutti credono di saper tutto. Qualche giorno fa, su Instagram, hanno scritto che porto il parrucchino. Arriva un momento dove ci ridi su e non ci resti più male, tanto se non ho il parrucchino, sono rifatto. E se non sono rifatto, sono incapace. Viviamo in un mondo dove ci deve essere sempre del marcio».

D. Anche la critica non è mai stata dalla sua.

R. «Sa quante volte sono stato stroncato senza essere stato nemmeno visto? C’è chi la chiama invidia sociale. Fortuna che il successo, alla fin fine, lo decreta sempre il pubblico».

D. Ha mai avuto un piano B ?

R. «No. Ogni tanto ho pensato di ritirarmi dalle scene per dedicarmi ad altro, ma poi so che non lo farei mai».

D. Nel suo libro scrive: “Mi porto sempre dietro le mie insicurezze”. E proprio vero che l’apparenza inganna..

R. «Colpa dei ruoli che ho interpretato e mi rendo sempre più conto che, per chi non fa questo mestiere, è davvero diffìcile scindere la persona dal personaggio».

D. Però con Tinto Brass, al provino per Senso 45, non sembrava insicuro.

R. «E stato imbarazzante spogliarmi nudo. Ma, superato l’impatto iniziale, mi sono reso conto che davanti a lui tutto diventava semplice, “normale”. Un po’ come andare dal dottore… Del resto è il re dell’erotismo».