Un corpicino esile. Minuto. L’anellino al naso. Le labbra carnose, chiuse, come in un bacio. Una cascata di capelli neri a sigillarle il volto. Sembrava Biancaneve, addormentata sul sedile posteriore dell’auto. Intorno a lei un caos cosmico: il male cristallizzato nel sangue, nella posa di lamiere contorte, l’odore della morte, mischiato a quello della tappezzeria. Un silenzio di tomba, rotto da un lamento impercettibile e singhiozzante.
Irene Pitzoi, spezzina, 40 anni, ex volontaria dei vigili del fuoco ed esperta in manovre di primo soccorso, è arrivata quando la tragedia di Albiano Magra si era già consumata. Passava di là in auto, insieme al marito. Sul rettilineo della statale che porta a Ceparana, all’una e mezzo di notte non c’era nessuno. L’unica presenza scura, immobile, a lato della carreggiata, era quell’ammasso informe, l’Alfa Mito sulla quale viaggiavano fino a pochi istanti prima i cinque ragazzi. Una scena agghiacciante.
Lo schianto nel quale hanno perso la vita la spezzina Giorgia Gallo e l’amico di Podenzana Andrea Rapallini, e nel quale sono rimasti gravemente feriti altri tre giovanissimi, era stato annunciato da un boato fortissimo. “L’auto era tutta accartocciata – racconta Irene –. Mi sono avvicinata e ho provato ad aprire le portiere.
Erano bloccate. Mi sono fatta strada tra i vetri in frantumi di un finestrino posteriore. Dentro, un’apocalisse. Il ragazzo alla guida aveva le ginocchia strette al petto, il volante non si vedeva praticamente più, inghiottito dalle lamiere e dal motore. Sembrava ancora vivo, ho provato a parlargli per tranquillizzarlo, gli sussurravo di restare calmo, che presto sarebbero arrivati i soccorsi. Non so se capisse, parlottava, ma non riusciva a muoversi”. Irene è ancora agitata, sconvolta.
“Accanto, sul sedile del passeggero, un altro ragazzo tentata di uscire dall’abitacolo, ma era ferito, gravemente. Ho chiesto a mio marito di tranquillizzarlo e mi sono concentrata sulla ragazza. Era distesa sul sedile posteriore, immobile, il corpo avvolto dalla cintura di sicurezza. Ho preso un taglierino e ho reciso la cinghia. Mi sono avvicinata e mi sono aperta un varco tra gli indumenti. Sono stata a lungo nei vigili del fuoco, so cosa si deve fare in queste circostanze”. Già, ma anche le mani più esperte tremano di fronte all’orrore. Otto minuti, otto.
Otto minuti per provare a strappare Giorgia alla morte, per restituirla ai suoi vent’anni, all’amore dei suoi genitori, alle serate con gli amici, ai suoi studi universitari. Otto minuti è durata la forza di Irene, la sua caparbietà. “Le ho praticato il massaggio cardiaco e la respirazione bocca a bocca. Non dimenticherò mai la sensazione della mia mano su quel torace così fragile, il suo volto disteso, sereno”. Ha ripreso conoscenza, Giorgia, per qualche istante. Il battito era ancora là, quando sono arrivati medici e infermieri del 118. Poi si è spento per sempre. Giorgia è tornata per qualche istante alla vita. Il tempo di stringere la sua mano in quella di Irene. “Mamma – ha detto in un sussurro – restami accanto”. Una preghiera che rimarrà nel tempo.