Ho avuto il privilegio di conoscere Ezio Bosso, un uomo di grande carisma e fascino. Un artista talmente intrigante che avrebbe potuto essere il più bel romanzo di Oscar Wilde. Non ho mai creduto che la sua vita potesse finire così presto e non ho mai visto in lui una persona fragile o malata: dopo cinque minuti trascorsi in sua compagnia ti accorgevi che i malati erano tutti gli altri. Perché sapeva sdrammatizzare a sapeva portarti immediatamente lontano dal pensiero della sua condizione.
Non amava farsi commiserare, aveva alcune durezze nel carattere che oggi suonano come una forma di difesa, per sé e per gli altri. Sapeva che, chi si fosse affezionato a lui, avrebbe sofferto. Bosso era fragile fisicamente, ma fortissimo di carattere, era un uomo che metteva in dubbio ogni tua certezza, conoscerlo è stato un dono raro. Perché parlo di lui? Perché sono abituata a manifestare con grande sincerità i miei stati d’animo e voglio rendere omaggio a una persona che ha lasciato un segno nella mia vita e anche in quella di chi non lo conosceva. E, chi lo ha incontrato, conserva una parte di lui.
Io ho la mia, ma voglio che questo sia un omaggio trasparente, scevro da qualunque lettura maliziosa. Avevo conosciuto Ezio Bosso molti anni fa e l’ho rivisto a Sanremo nel 2016, anno in cui è stato ospite di Carlo Conti e, come tutti gli italiani, sono rimasta folgorata dalle sue parole e dalla sua musica, è stata come un’apparizione. Da allora ho avuto l’occasione di frequentarlo, conoscerlo meglio, di andare ai suoi concerti.
Di lui ho amato la sua anima geniale, il suo carattere deciso e la sua intelligenza raffinata, la sua capacità di decidere la trama dei propri rapporti, di condurre le danze. Ezio non era in balia degli altri, casomai, purtroppo, era in balia della sua malattia e per questo non voleva sentirsi compatito o suscitare tenerezza. Aveva grande fascino e qualsiasi donna, ma direi qualsiasi essere umano, conoscendolo, non poteva che innamorarsi della sua personalità istrionica. Mi ha sempre dato fastidio quando lo descrivevano come uno che “commuove” perché in questo termine c’è anche un sentimento legato alla sua condizione, mentre lui sapeva ammaliarti, portarti in un altro mondo con le proprie armi. Ho riascoltato in questi giorni le sue composizioni, che passeranno alla storia. Rain, in your black eyes è uno dei pezzi più potenti che abbia mai sentito: impetuoso, dolce e toccante, come Ezio.
Quando ascoltavi la sua musica dal vivo venivi rapito, assistere a un suo concerto era una cosa che ti faceva volare e, quando uscivi dal teatro, non eri più la persona di prima. Era come il pifferaio magico, attraverso le note sapeva raccontarsi anche con sarcasmo e senso dell’umorismo, riusciva a ridere della tragedia della sua malattia e portarti nel profondo della sua anima, sconvolgeva ogni tua struttura, ti trascinava e ti metteva in una bolla. Avevo imparato a conoscerlo e non era facile, non era facile essergli amico, non era facile amarlo, con lui non ho mai potuto decidere niente e ho sempre e solo accettato le regole che lui stabiliva.
Dirigeva la vita come dirigeva un’opera. Eravamo veramente amici e solamente amici. Era spiritosissimo, coltissimo, misteriosissimo, il mistero fatto a persona. Ci ha lasciato senza avvisarci, senza farci presagire il destino che forse conosceva, ma che avrei scommesso non si sarebbe mai presentato alla porta, non credevo nemmeno all’evidenza della sua malattia perché la trovavo inaccettabile. Per questo ho trattato Ezio come trattavo tutti, e questa è la mia più grande colpa e il più grande sollievo. Perché non avevo filtri, mi piaceva provocare le sue reazioni, avevamo un rapporto schietto e questa è stata la cosa più bella. Ho sempre volato sopra gli stereotipi,la banalità, le condizioni fisiche, sopra qualsiasi cosa. Certo, a volte abbiamo anche discusso, perché Ezio era “inafferrabile”, sfuggente.
Lo trattavo come una persona sana e lui diceva che, quando non sbroccavo, ero una persona meravigliosa. Ammetto di aver sbroccato, e forse lui si divertiva perché era uno che aveva una sua vanità, e vorrei che la gente non lo dipingesse come un povero ragazzo sfortunato perché era un uomo pieno di charme, di donne che avrebbero fatto qualsiasi cosa per stare con lui, consapevole dei suoi poteri. Era tante cose, tutto e il contrario di tutto, impossibile non innamorarsi della sua persona. Ci siamo detti tante cose, ho passato giornate intere a piangere guardando il soffitto pensando a quanto fosse tragico il suo destino e volevo convincermi che non fosse così.
Di lui amavo più i difetti che i pregi perché erano la sua forza, come quella capacità che molti avranno sperimentato su piani diversi di sedurti e lasciarti senza fiato e senza speranza. Questa era la sua magìa, con un tocco di bacchetta ti faceva avvicinare e con un altro ti teneva lontano, era anche il suo modo di proteggere i rapporti, di tenerli sospesi, di non definirli. Gli ultimi concerti li faceva quasi solo dirigendo, ma ricordo la stagione in cui ancora suonava, come in The 12th room tour, dove raccontava il rapporto fra la vita e la morte. Diceva che, secondo una teoria antica, la vita di ogni uomo è composta di dodici stanze, in ciascuna lasciamo qualcosa di noi e di tutte ci ricorderemo quando entreremo nell’ultima. La prima, quella in cui siamo nati, non possiamo ricordarla, la rivedremo solo quando entreremo nell’ultima, dove tutto finisce e tutto ricomincia. E allora mi piace immaginare Ezio come un eterno ragazzo, con quel sorriso e gli occhi curiosi di un bambino, che ci ha lasciato troppo presto, senza avvisarci, lasciando solo “pioggia nei nostri occhi scuri”.