Un ritmo latino-americano lanciato a tutto volume esce dalla casa di Orietta Berti. È un mix tra una bossa nova e una cumbia, un sound che non ti aspetti dalla regina delle melodie all’italiana.
D’un tratto cambia tutto. È il momento di Quarantaquattro gatti. «C’è Olivia, la mia nipotina. Siccome le piace ballare, il ritmo tropicale che le propongo la elettrizza», racconta nonna Orietta con orgoglio. «Questa bambina è come il sole: illumina ovunque si trovi.
Anche se ha solo un anno e mezzo sa già quello che vuole. Sorride sempre e se capita che sia un po’ imbronciata, basta una carezza per farle tornare il buonumore». Orietta è dolce, accenna per lei una canzone e la piccola batte le manine.
È la sua fan numero uno, la più piccola tra le migliaia di appassionati della Berti che, in 55 anni di carriera, hanno acquistato 16 milioni di suoi dischi, l’hanno applaudita ai 13 Festival di Sanremo, ne hanno apprezzato la spontaneità, la simpatia e quell’ugola d’oro che le è valsa un soprannome: usignolo di Cavriago.
E pensare che quando era poco più che bambina a Orietta avevano detto che era stonata. «Non sognavo di fare la cantante, piuttosto la maestra o la sarta, ma mi misi a cantare per assecondare la passione di mio padre Mafaldo. Mi portava dai maestri per capire se avevo la stoffa e la voce.
E una volta un’insegnante di Bologna, fiera di aver intravvisto per prima il talento di Gianni Morandi, disse a mio padre che non ero portata. Diceva che ero troppo timida, che non avevo il senso del ritmo e non ero intonata», racconta Orietta. Questo aneddoto e tanti altri sono contenuti nell’autobiografia: Tra bandiere rosse e acquasantiere, edita da Rizzoli. «È stata Iva Zanicchi a farmi venire la voglia di raccontarmi in un libro.
Ora leggerlo mi emoziona a ogni capitolo». C’è tutto il mondo di Orietta in queste pagine. C’è lei bambina, «un maschiaccio che odiava le bambole. Non le collezionavo come poi ho fatto. Oggi ne ho oltre novanta, provenienti da tutto il mondo», spiega Orietta. «A me piaceva stare all’aria aperta con la mia bici da uomo, dalla quale cadevo spesso, e le trecce che mi scendevano lungo la schiena».
La Berti era legatissima ai genitori. «Mamma lavorava alla pesa pubblica, papà era commerciante di foraggi: eravamo poveri, eppure mi sentivo una principessa. La mia ricchezza era l’amore», confida. «Papà adorava la lirica, ma dovette smettere di studiare per aiutare i fratelli e sua madre.
Per questo ha riversato la sua passione su di me ed è con lui che mi presentavo ai primi concorsi. Con papà andavo in chiesa e alle feste religiose, in processione avevo un compito: spargere i petali di rose lungo la strada. Con mia mamma, invece, andavo ai comizi e ai cortei del Pci.
Sventolavo la bandiera rossa, distribuivo garofani. Ero piccola, ma ero così fiera di stare accanto a lei da sentirmi un gigante». Dopo un dolore immenso, per Orietta la musica, da passione che era, diventa missione. «Quando mio padre morì a 51 anni, e io ne avevo 19, iniziai a cantare seriamente: ero certa che lui sarebbe stato orgoglioso».
Ma la svolta arriva nel 1961. «Fu grazie al maestro, autore di programmi, paroliere e discografico Giorgio Calabrese che mi notò al concorso Disco d’oro, a Reggio Emilia. È stato il primo, dopo papà, a credere in me. Sono stata fortunata: sul mio cammino ho incontrato persone che mi hanno voluto bene ». Passano pochi anni e Orietta inizia a farsi apprezzare dal pubblico: «Cantavo le canzoni religiose della cantautrice belga Suor Sorriso.
Partecipai a un programma televisivo a Pasqua e da lì il decollo fu rapido». Il primo grazie l’ha rivolto a Calabrese, il secondo, quello più significativo, è per Osvaldo, suo marito dal 1967. «Quando ci siamo conosciuti avevamo un ventina di anni. Era il 1964, lo incontrai a un mercatino.
Vidi un ragazzo con un ciuffo alla Montgomery Clift, occhi verdi, un trench: fu un colpo di fulmine. Vinsi la timidezza e, dopo che me lo avevano presentato alcuni amici, lo invitai a casa a bere un caffè al cioccolato. Si presentò una settimana dopo con un pezzo di Parmigiano.
Osvaldo era serio, tranquillo, per nulla in caccia di avventure». Passarono mesi, il primo bacio fu nel 1965 e da quel momento Orietta fu pronta a volare. «Osvaldo era il tassello che mancava per sentirmi completa. Per seguirmi lasciò il lavoro e mise da parte ambizioni e hobby. Era il compagno di vita, il consigliere, il manager e, quando serviva, anche l’autista.
È la bussola, colui che mi dà il senso della rotta: io sono una donna dei Gemelli, ho bisogno di avere conferme e in lui le ho sempre trovate ». Le nozze si celebrano a marzo 1967. E Orietta rammenta un aneddoto incredibile: «Faceva un gran freddo, la cerimonia fu raccolta, ma c’erano le telecamere di Telemontecarlo. Il “sì” si Osvaldo fu flebile e non fu registrato. Quando i tecnici se ne accorsero in sala di montaggio, volevo farlo doppiare. Ma da chi? Da Al Bano che era nello studio accanto.
Che ridere: ho sposato Osvaldo ma il sì l’ha detto il mio amico di Cellino!». Altri due uomini hanno riempito d’amore la vita di Orietta: i figli Omar e Otis. «Bravi, attaccati alla famiglia: non li ho seguiti quanto avrei voluto quando erano piccoli, perché ero sempre in giro per lavoro, ma ero serena perché li lasciavo alle nonne. Appena potevo correvo da loro, anche di notte, pur di abbracciarli prima di un concerto». Orietta non è donna che ama i bilanci. «Ma quello della mia vita è molto meglio di quanto abbia mai osato sognare.
Faccio il lavoro che volevo e mi diverto. Il pubblico è la mia forza, mi vuole bene. E poi negli anni ho conosciuto gente speciale. Amici, colleghi, persino tre Papi. Nel 2000 conobbi Giovanni Paolo II in occasione del Giubileo degli ammalati. Regalò a me e a Osvaldo un rosario che conserviamo. Nel 2005 conobbi Papa Benedetto XVI: mi disse che mi conosceva e sapeva che un tempo cantavo brani religiosi. E nel 2016 ho incontrato Papa Francesco: è disarmante perché ti guarda dolcemente come se fosse il tuo papà. Gli ho regalato il mio cofanetto per i 50 anni di carriera.
Lo accettò e citò Sant’Agostino: “Chi canta bene prega due volte”». Orietta sorride. E si illumina quando la piccola Olivia vuole giocare con lei alle bambole. «Io la vedo andare svelta verso il futuro con i suoi piedini. E nei suoi occhietti vispi vedo la curiosità che mi è sempre appartenuta e che ho ancora oggi. È uno slancio puro verso ciò che mi circonda, che mi fa emozionare e mi fa cogliere il bello e il buono che esiste».