I Maneskin chi sono

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Mentre lavoravano al loro ultimo disco, nelle pause, magari anche a tarda notte, i Måneskin giocavano a ping pong. Ma palleggiavano piano, per non far rumore e non disturbare il padrone di casa: Ron. Questo avveniva a Garlasco, nello studio di registrazione “Angelo”, una ex fabbrica di cioccolata che il vincitore di Sanremo ’96 (con Vorrei incontrarti tra cent’anni) ha da tempo trasformato in abitazione e bottega per sé e per altri artisti ospiti. Ron descrive i Måneskin con simpatia: «Siamo diventati amici.

Loro sono educati e gentili e non sono cambiati di una virgola da prima a dopo la vittoria dell’anno scorso a Sanremo. Il mondo della musica non è facile e non è nemmeno facile diventare famosi a vent’anni. Io ho debuttato al Festival quando ne avevo addirittura sedici, ne so qualcosa. Bisogna avere una grande forza interiore per andare avanti con coerenza senza montarsi la testa né farsi schiacciare dalle pressioni ». Anche i Måneskin hanno iniziato da minorenni.

La loro avventura è cominciata con 40 euro, la quota d’iscrizione a un concorso per band scolastiche romane. Oggi primatisti del rock, invitati da Los Angeles a Sanremo a ribaltare i luoghi comuni sulla musica italiana, tenuti in palmo di mano da una multinazionale, vestiti con venerazione dagli stilisti di grido, hanno avuto come primo talent scout Matteo Caffarelli, 35 anni, romano. Nel 2013 cercava di diventare un manager musicale e per questo aveva organizzato il Pulse High School Band Contest. Distribuiva volantini nell’atrio delle scuole. Un giorno, siamo nel 2016, Ethan Torchio, studente e batterista, è uno di quelli che si fermano: interessato ma esitante. «Forse non siamo ancora pronti per suonare in pubblico » dice.

Caffarelli insiste, Ethan versa i 40 euro. I Måneskin vincono la gara. In premio c’erano una chitarra elettrica regalata da uno sponsor e la registrazione di un brano in uno studio professionale. «Erano già una spanna sopra gli altri », ricorda Caffarelli. «Ethan per me è il vero ingegnere musicale del gruppo, molto timidona di spessore. Sono una band molto bilanciata, trascinata solo nell aspetto nell’aspetto Sono trasgressivi dal carisma di Damiano ma tutti e quattro hanno talento. Organizzai per loro piccole serate a Roma e dintorni.

Una sera sono venuti a casa mia, si sono seduti sul divano e io mi sono proposto come loro manager». Caffarelli è spronato da un’ambiziosa fidanzata del tempo. «Chiedi il 20 per cento dei guadagni», gli dice. Fosse per lui si accontenterebbe del dieci, ma vuole fare bella figura con lei. Errore. Il giorno dopo riceve una telefonata dal padre di Ethan, Candido Torchio, uomo del mestiere, regista e produttore di video musicali.

Fa una veloce radiografia a Caffarelli e capisce che non è abbastanza inserito. L’accordo non si fa. Mesi dopo, vede i Måneskin in tivù, a XFactor, prima tappa di un successo che sembra inarrestabile. Caffarelli finisce gli studi, oggi fa lo psicoterapeuta e un pochino, lo ammette, si mangia il fegato. Non avesse dato retta alla fidanzata smaniosa, oggi forse ci sarebbe lui al posto di Fabrizio Ferraguzzo, il manager attuale del gruppo, già direttore artistico di X Factor.

In mezzo, i Måneskin sono stati gestiti da Marta Donà, nipote di Claudia Mori e Adriano Celentano, che lavora anche per Marco Mengoni, Francesca Michielin e Alessandro Cattelan. Donà ha seguito la band romana fino ai trionfi di Sanremo 2021 e dell’Eurovision, poi è entrato in scena Ferraguzzo a cavalcare la Måneskin-mania scoppiata a livello internazionale. Tanta notorietà non impedisce qualche sprazzo polemico. «Attenzione a glorificare troppo», ha detto il maestro Vince Tempera, «in America hanno aperto un solo concerto dei Rolling Stones, non tutto il tour, e come i Måneskin hanno fatto altri venti piccoli gruppi americani».

Chi dice che il merito di tanta visibilità all’estero si debba più che altro alla botta di fortuna che il singolo Beggin’ (cover di una canzone di più di 50 anni fa) sia stato tra i più usati sulla piattaforma TikTok: 10 milioni di video ce l’hanno come colonna sonora.

C’è chi invece sottolinea che cantanti come Sangiovanni e Rkomi, entrambi a Sanremo in gara quest’anno, vanno più forte dei Måneskin in termini di streaming. Sarà, ma intanto a sedurre gli americani ci sono andati loro. Il 27 ottobre alla Bowery Ballroom di New York Damiano in completo di raso fucsia con giacca aperta sul torace nudo ha fatto impazzire la platea: circa 500 persone, alcuni italiani ma la maggior parte americani, con tanto di ragazze che lanciavano reggiseni sul palco come ai tempi dei Beatles. Serata elettrizzante, conclusa con un party ristretto a fine spettacolo.

Tra gli invitati, il presidente mondiale della casa discografica Sony, segno che la corsa dei Måneskin è affare serio. Così serio che intorno al loro energetico rumore di scena, c’è uno spesso strato di silenzio. Parlano poco, solo se interrogati insieme, usano i loro account social per informazioni su concerti e apparizioni. Non parlano con la stampa nemmeno i loro genitori che hanno «scelto da subito un profilo molto basso decidendo di continuare ad essere dei perfetti sconosciuti amando molto la riservatezza già da prima», come mi ha scritto Daniele David, padre di Damiano, rispondendo a una richiesta di intervista. Forse è tutta strategia concordata con maghi della comunicazione, forse è l’autentica altra faccia della trasgressione esibita sul palco. Non sono fuori di testa i Måneskin: sono davvero zitti e soprattutto buoni.